Siamo arrivati alla parte conclusiva del testo di Scheler, quella in cui il filosofo tira le somme del suo riflettere sul problema del lavoro. La conclusione riguarda appunto la specificazione del rapporto tra lavoro ed etica, annunciato nel titolo, ma finora rimasto quasi sullo sfondo. Abbiamo precedentemente incontrato la parola dovere, usata da Scheler in riferimento alla conoscenza del destino e dell’intenzione di un bene prodotto. Il lavoratore deve agire in ogni modo a lui lecito, in quanto cittadino, per venire a conoscenza dell’utilizzazione del prodotto, vale a dire se il prodotto da lui lavorato viene a rispondere ad un bisogno moralmente ben giudicabile.
Se così stanno le cose per Scheler, è chiaro che il semplice imperativo “devi lavorare” appare destituito di ogni legittimo fondamento. Esso non può venire inteso come costituente una legge morale. Per quale motivo? La risposta la troviamo nell’iter fin qui percorso dal filosofo. Ogni attività mediata, così come è quella del lavoro, non ha in sé la qualità morale, ma dipende dai fini dell’organizzazione e del diritto. In tal modo è possibile parlare di una qualità morale del lavoro solo se si ritiene di poter fare riferimento a tale sistema di fini, a questa organizzazione che governa il lavoro. Ancora una volta il filosofo tedesco ci dice dunque che il lavoro in sé non ha un valore.
Non si creda però che Scheler si richiami solo al lavoro non qualificato. Egli attribuisce una qualità al lavoro scientifico solo se questo conduce ad un metodo. Anche qui vi è la necessità di una predeterminata direzione del lavoro ed è questa che può essere qualificata come morale oppure immorale. Detto in maniera più esplicita: “Solo se un’organizzazione di fabbrica è ordinata riguardo al tipo, alla misura, al tempo, al luogo, al guadagno ecc. del lavoro, in modo da corrispondere alle leggi morali fondamentali, conformi ai più alti principi, anche il ‘lavorare’ all’interno della stessa è moralmente buono” (Lavoro ed Etica, p.91).
Il lavoratore dunque non può esimersi da una responsabilità morale che investe l’intera organizzazione del lavoro a cui egli partecipa. Scheler afferma che nel momento in cui tutte le categorie di riferimento dell’organizzazione del lavoro sopra enunciate (misura, tempo, luogo) non si accordano con i principi morali, il tutto è obiettivamente immorale. Tale immoralità diviene soggettiva, ovvero riferibile a ciascuno dei lavoratori, quando questi convivono con l’immoralità dell’organizzazione. In questi casi “è dovere morale di ogni singolo rinunciare al lavoro” (Ibidem).
Il filosofo separa in maniera netta il problema economico da quello morale del lavoro, poiché a suo parere il dovere morale è completamente indipendente dall’interesse economico. Cambiare lavoro ovvero opporre resistenza passiva per cambiare l’organizzazione, sono mezzi per opporsi da parte del singolo all’immoralità dell’organizzazione. Non è possibile barattare il perseguimento di fini morali con l’interesse economico. Per Scheler è immorale accettare l’immoralità di una organizzazione di lavoro perché si ha la necessità economica di un guadagno, così come è soggettivamente immorale lasciare il proprio posto di lavoro, benché l’organizzazione sia immorale, esclusivamente per motivazioni economiche.
Qual è allora l’arma in mano dei lavoratori, per cercare di cambiare il fine dell’organizzazione? L’arma dei lavoratori è quella di deporre le mani, di contrapporre la propria volontà a quella dell’organizzazione per mezzo dello sciopero. La lotta operaia per mezzo dello sciopero è l’arma con cui le teorie socialiste intendevano portare avanti le proprie rivendicazioni, quindi l’idea di Scheler di considerarla come pertinente alla sua visione del rapporto lavoratore-organizzazione del lavoro potrebbe far supporre che in ultima istanza le sue posizioni si avvicinino a quelle teorizzate dai pensatori socialisti.
Al contrario ancora una volta il filosofo tedesco prende le distanze dal pensiero marxiano e dei suoi epigoni: la lotta con lo sciopero non può essere motivata da principi economici, ma esclusivamente da principi morali. Il lavoro organizzato in sindacati e confederazioni di lavoratori non deve essere una organizzazione economica di lotta, ma un mezzo per agevolare tutti i lavoratori nell’adempimento del dovere morale, che rimane il dovere soggettivo di ciascuno. Tali mezzi hanno il compito di facilitare anche l’armonizzazione del doveroso perseguimento di fini morali, precedente ad ogni ingresso nel mondo del lavoro, con i vari interessi economici di ciascun lavoratore.
In questo modo si mostra come le rivendicazioni dei lavoratori non possono venire catalogate come “ideologie” non pratiche. Esse sono, al contrario, parte di un idealismo pratico. L’intento che Scheler si prefigge è proprio quello di dare una visibilità anche teoretica a quello che, a suo parere, è già presente nella prassi della rivendicazione. Inoltre se lo sciopero è un’azione volta solo al raggiungimento di obiettivi economici è giusto – si chiede Scheler – se alcuni lavoratori che scioperano, appellano come traditori – i cosiddetti “crumiri” - coloro che sempre per lo stesso motivo, per non rinunciare alla paga giornaliera, decidono di non scioperare? In base a quale principio possono venire tacciati di irrazionalità e cattiveria coloro che decidono di non scioperare, se il principio che regola il loro agire è sempre quello economico?
Il problema è dunque quello riguardante la possibilità di giustificare moralmente un’azione condotta su di un principio altro dalla morale come quello della motivazione economica. Il dovere morale di rinunciare al lavoro subentra quando è l’organizzazione del lavoro ad essere immorale, non quando le motivazioni sono esclusivamente economiche. “Questo dovere – scrive Scheler – è dunque assolutamente primario sia rispetto all’interesse economico, sia anche rispetto alla forma di una organizzazione nella quale tali doveri possono diventare moventi dell’azione” (Ivi, p.94).
Se così stanno le cose, qual è l’importanza che assume la condizione economica rispetto al compito dei lavoratori? La risposta del filosofo tedesco è netta: “È quindi indifferente quali specifici interessi economici abbiano i lavoratori ed anche se ne siano a conoscenza: ed è indifferente se e quanto siano coinseriti nell’organizzazione: essi hanno tutti singolarmente da compiere il loro dovere alle condizioni date” (Ibidem).
Ma Scheler continua la sua critica nei confronti delle teorie socialiste sul lavoro in base ad una contraddizione tra teoria e prassi che esse hanno nel loro principio. Abbiamo già visto infatti che per tali teorie è il lavoro a creare in sé un valore. Ora se questo è vero allora il lavorare dovrebbe essere non solo l’unico valore di riferimento, ma anche l’unico dovere morale. La conseguenza diretta di questa affermazione sarebbe che ogni rinuncia o abbandono del lavoro si presenta come immorale e quindi dovrebbe venire proibita. Al contrario per Scheler solamente chi rinviene dei principi morali al di fuori della sfera del lavoro, e dunque nei sistemi dei fini oggettivi, riesce a giustificare logicamente il diritto ad abbandonare il lavoro. Questo può accadere proprio in base a principi morali che chiedono il cambiamento dell’organizzazione del lavoro.
Per le teorie socialiste invece, visto che il lavoro è l’unico creatore di valore, anche il riposo domenicale o festivo appare esclusivamente come una pausa per riprendere energia di fronte al primo dovere che è sempre quello del lavorare. Poiché: “essendo qui il lavoro l’unico creatore di valore, si può conferire valore a tempi in cui non si lavora solo nella misura in cui le attività che si debbono eseguire in questi tempi vengano di nuovo riferite al lavoro come loro causa” (Ibidem).
Scheler invece è di tutt’altro parere. Egli infatti ritiene che tutte le attività e le circostanze che si condensano in questi tempi “morti”, possiedono un valore indipendente rispetto al lavoro, anzi tale valore predetermina il valore del lavoro. Questo perché proprio in questi tempi di non-lavoro si ha il compito di contribuire formare quel sistema oggettivo di fini che dà significato al lavoro. È l’impegno non lavorativo in istituzioni come la famiglia, la comunità, lo stato, la chiesa, che il lavoratore può fornire il contributo affinché il proprio lavoro assuma fini morali.
In quali modi è possibile congiungere questi che sembrano due mondi separati? Scheler ci fornisce alcuni esempi per riuscire a comprendere meglio quanto da lui affermato: “il tempo di lavoro quotidiano, nella misura in cui possono variamente formarlo anche fattori di volta in volta eccezionali (pesantezza del lavoro, condizioni delle relazioni di scambio periodicamente ricorrenti, lavoro stagionale, condizioni di concorrenza, ecc.) va stabilito sempre in modo coordinato ai doveri del lavoratore verso la sua famiglia, considerata un momento primario rispetto ai momenti nominati” (Ivi, p.95).
Accanto alla possibilità di stare accanto alla famiglia deve essere data al lavoratore la possibilità di partecipare alla vita sociale e civile, mediante le modalità garantite dalla costituzione, e di vivere come membro all’interno della propria chiesa. In questo modo la sfera del dovere risulta fornita dell’adeguato tempo per il suo svolgimento. La domenica di libertà è il momento in cui il lavoratore ha la possibilità di riflettere sull’ordine divino e sull’ordinamento umano, di occuparsi delle faccende familiari, di divertirsi anche. Questo deve portare ad evitare che il lavoro non assorba l’interezza della vita umana, restringendola alla meccanica del lavoro e al procedimento “cieco” della vita economica.
Tutti questi “valori” che Scheler ha elencato – tempo libero, educazione, divertimento, partecipazione ai doveri dello stato e della comunità – trovano la loro legittimità fondata esclusivamente in una visione del lavoro che non attribuisca solo a questo la predominanza. Al contrario per le teorie socialiste tali momenti appaiono illegittimi, poiché tutto deve trovare la sua legittimità e la sua fondazione nel processo lavorativo. È da qui che proviene il valore anche per tutto ciò che sembra rimanere estraneo al processo produttivo stesso. In queste visioni del mondo infatti tutte le figure, come il padre di famiglia, l’appartenente ad una comunità religiosa il cittadino dello stato, vengono risolte ed annullate nella figura del lavoratore.
“Le diverse funzioni dell’uomo – scrive il filosofo tedesco – corrispondenti al suo vario essere-membro delle diverse relazioni oggettive, prese insieme in un punto di unità sostanziale, vengono qui staccate da ogni sostanza e in cima a queste funzioni, spogliate da ogni nesso interno, si pone quella del lavoratore, che deve fornire a tutte le altre la più esatta determinazione” (Ivi, p.96) è quindi il lavoro che determina la comprensione della funzione e del significato di tutti gli altri ruoli che l’uomo ricopre all’interno della sua vita. Il lavoro diviene il fulcro dell’unità sostanziale dell’uomo nella sua molteplicità di funzioni.
Per questo Scheler afferma che il giudizio “il lavoratore è un padre di famiglia, un cittadino..” può venire considerato come un giudizio analitico o sintetico. Analitico è quel giudizio – come ci insegna Kant – che non aggiunge nulla a quanto di per sé predicato dallo stesso soggetto in sé (l’esempio kantiano è “la pietra è estesa”); mentre il giudizio sintetico si ha quando il predicato aggiunge qualcosa di nuovo a quanto il soggetto è prima della predicazione. Mentre le teorie socialiste danno un significato analitico alla frase “il lavoratore è un padre di famiglia”, con la sua riflessione vuole attribuirgli un significato sintetico.
Nel momento in cui la teoria socialista afferma che il lavoratore non può compiere con sufficiente intensità i compiti extralavorativi perché il lavoro occupa troppa parte del tempo, si mostra, secondo Scheler, di nuovo l’oscillare continuo tra un piano empirico ed un altro ideale; questo significa che le critiche marxiane al socialismo utopistico, esercitate sempre e continuamente da Marx a favore di un esame della situazione concreta, rimangono spesso lettera morta all’interno della sua stessa teoria.
In questo modo si presenta una forte contraddizione, poiché viene usato un concetto utopico del lavoratore a cui si cerca di adeguare in maniera forzosa il concetto empirico, che viene delineato attraverso la critica marxiana ai rapporti di dominio socio-economici. Alla maniera di Hegel si cerca di superare logicamente la contraddizione facendo sì che il carattere non-utopico divenga una qualità della teoria, senza che questa operazione abbia una legittimità di sorta.
Ma Scheler afferma che non è solo la teoria marxiana che attribuisce al lavoro un valore indipendentemente dalla presenza di sistemi oggettivi. Questa visione è presente anche in quelle riflessioni filosofiche che vedono nel lavoro una narcosi, un obnubilamento della ragione di fronte allo scacco della vita senza senso. Attraverso il lavoro ci sarebbe quindi una sorta di messa da parte degli affanni e dei problemi connessi al nostro esistere nel mondo. Uno dei filosofi a cui fa riferimento Scheler è Pascal, ma cita anche Voltaire: “Lavoriamo senza ragionare è il solo modo di rendere la vita sopportabile” (Ivi, p.97) questo perché il lavoro riesce a fornire la vita di un fine, aggiunge uno scopo che la vita in sé non avrebbe, come affermano i versi del poeta:
“Solo il lavoro ti distoglie
dal truce negare del mondo,
esso dà alle ore un fine
che neppure il vivere ha” (Ibidem).
Tali versi mostrano un pessimismo così profondo che appare difficile poter pensare di costruirvi intorno un sistema filosofico. Il sistema filosofico infatti offre sempre una via d’uscita, una possibilità di salvezza. È stato Schopenauer che ha trattato in una visione pessimistica il lavoro, ma questo filosofo, secondo Scheler, non ha raggiunto pienamente il suo scopo. Egli infatti dovrebbe considerare il lavoro come espressione della volontà, quindi cieco e cattivo. La volontà generale di organizzazione razionale del lavoro, quella che si presenta normalmente come tutela dei fini morali, è vista da Schopenauer come qualcosa di negativo: il bene invece consisterebbe nella negazione di tale volontà “razionale”.
Ma questo cosa significa? Che il lavoro, privo di una guida razionale, viene ad assumere esso stesso una propria razionalità, in quanto esso è, come le altre attività umane, nient’altro che una produzione della volontà. Citiamo Scheler in proposito: “Proprio per il fatto che il ‘lavorare’, quanto al suo valore, viene eguagliato alle altre produzioni della volontà, esso, tra queste altre opere, dunque all’interno del mondo stesso della volontà, appunto rispetto alle altre produzioni, si trova a godere di un relativo incremento di valore” (Ivi, p.98).